Copyright © 2008 Cara Dawson
Abbiamo individuato il punto esatto, constatato il nome e la data di nascita, scavato duramente fino a ridurci le mani tumefatte, uno di Noi è sceso nella buca e ha sistemato le corde facendo più nodi poi assieme siamo riusciti a tirarla fuori. Le saldature, ormai inservibili, sono state divelte facilmente e abbiamo aperto la bara.
Non c'era sorpresa sul mio viso, né sul suo, neanche su quello dentro la bara, per quanto non ci fossero occhi che potessero esprimerlo. Solo una poltiglia verde sul fondo e delle ossa ormai cenerizzate dal tempo trascorso in quell'oscuro letto. La notte non ci nascondeva. Non era importante lo facesse. Il nostro obiettivo rimaneva pur sempre far respirare il corpo nudo della salma, o almeno quello che restava, nel buio gelido della notte. 29 Febbraio. Giorno splendido per fare magie, innamorarsi di qualcuno o semplicemente guardare il cielo esprimendo un desiderio dopo l'altro.
Assicurata la salma, con la calma necessaria di un curatore di bonsai, caricavamo la bara sull'asse di legno che ci eravamo portati dietro. Il luogo esatto era appena un chilometro fuori dal cimitero, quindi, peso sulle ginocchia e sulle spalle, ci dirigevamo verso la cancellata d'uscita pronti a caricare il furgoncino. Una volta fuori, ci aspettava Lei, la nostra guida, la nostra dea. Non avevamo dubbi sulla sua Parola.
Carico pronto.
Motore acceso.
Pochi minuti dopo, di fianco all'albero più grande del mondo ma ancora alto pochi centimetri sentivamo i respiri della Terra e del Mare, del Sole e della Luna sul nostro collo. Dovevamo fare più in fretta possibile per non perdere l'unico attimo in cui quel corpo si sarebbe potuto ricongiungere all'Uno di Noi tutti.
Per un momento, ma solo uno, mi maledissi e spergiurai contro le ritualità delle nostre esistenze.
Un cerchio, simbolo solare di fertilità, attorno al corpo esanime e qualche nenia a dare speranza e direzione. Occhi aperti per non dimenticare, ma soprattutto per risvegliarsi dal sonno di ogni Notte. Anche avessimo sbagliato in quel momento uno o l'altro gesto da compiere, niente sarebbe andato storto; ogni volta, per ogni morte, per ogni vita basta avere l'ingenuità necessaria: la convinzione ferma che la Via giusta non si intraprenda forzatamente, ma si sia condotti dagli eventi qualunque sia scelta.
Avendo concluso, i risultati dei nostri sforzi, anche quella volta, iniziavano a manifestarsi: il respiro non si era fermato, bensì aumentava sempre di più. Non che lo sentissimo con le orecchie o con la pelle. Abituati dalle centinaia di volte in cui ripetevamo l'operazione avevamo acuito la percezione e il legame tra noi e Lei, sempre lì, sempre a guardarci e guidarci. Confidavamo in Lei e per questo ci girammo e tornammo a casa, sicuri che avrebbe finito il lavoro.
Capisco che definirlo un lavoro possa sembrare fuorviante, ma è questo che distingueva un'azione singolare ingiustificata dalla ripetizione di un medesimo movimento con un fine ben preciso.
Noi eravamo suoi dipendenti, per così dire, e scherzosamente venivamo chiamati i "Vivaisti". Non eravamo felici, ma non eravamo dispiaciuti, semplicemente facevamo sempre quello che il corpo voleva che facessimo...e non avremmo mai smesso di farlo.