[Quicumque is est]
Fluttua. Scivola giù di lato, poi di poco torna su, non resistendo però all’istinto di poggiarsi. Una foglia che cade da un ramo tracimante o una goccia che trasuda da una bacinella piena. Fuori piove da molto tempo. Ma anche se il tempo fosse diventato solare, rimarrebbe l’umidità tra le travi del soffitto.
E scende e fluttua la mia immagine allo specchio. La sento cenere attraverso la stanza. Passa, e si guarda e passa, e non si accorge di sé, se non avvicinandosi impallidendo nel vedere la sua ombra, sia fuori che dentro lo specchio. Sottile mi cade addosso e frammenta leggera come quella foglia secca che vorrebbe infiammarsi dalla tossicità che affolla la stanza.
Oggi invidio ciò che vedo e ciò che sento. Aldilà dell’armadio a specchio a ridosso del muro, si muovono persone come me. Simili in forma e portamento. In infanzia e adolescenza. Anche loro hanno suggellato il patto con il tempo e la realtà della società. Solamente, infondono in ogni loro azione la mediocrità e la discrezione, nascondendo la semplicità e l’ingenuità che caratterizza l’animale e i bambini. Fanno di ogni sentimento una chiamata alle armi. Mentono sulle cose che non conoscono. Poi rimpiangono.
L’animale sociale per eccellenza prega per essere libero da ogni costrizione. Usa la sua mente per distruggere i canoni e non si accorge di limitarsi. Si comportano come ogni famiglia installatasi in un monolocale. Un padre tornitore, una madre generosa con i propri figli. Due per l’esattezza. Concretamente sono destinati alla mediocrità del vivere. Nessun oggetto a cui tengano o di cui conoscano il passato. Solo ninnoli in cui è stata travasata una parte di anima. Li riceveranno e, guardando, ricorderanno come fosse meraviglioso vivere e come fosse meglio il vissuto del presente. Come fossero stati gentili i genitori nel crescerli.
Un passato, un presente ed un probabile futuro.
Ma l’armadio mi separa dal compiangerli, mostrandomi tutta la sua energia: le zampe leonine che lo sostengono e gli angoli arrotondati e internamente scavati, evidenziano le proprietà robuste del legno, e del falegname che l'ha scelto: rassicurano dal farsi male. Due lastre, una per ogni porta con bordi sbavati dalla vecchiaia. Uno centrale a completare la figura e uno come fondo del cassettone sottostante, per stupire complementando di ciò che non si vede. È la bellezza.
Era della nonna. Sembra quasi che l’abbia intarsiato lei con le maniere dolci usate per ricamare, per fare da mangiare ai nipotini; con la costanza e la precisione che un ragno userebbe per tessere la tela. Forse… Forse…c’è realmente un ragno sopra l’armadio e magari…magari dovrei pulire un po’ la stanza, fare amicizia con lui spiegandogli che le ragnatele così casuali non abbelliscono le pareti. Mica come il tappeto! Quello sì che dà un tono all’ambiente. In centro alla stanza, davanti alle porte, dal tessuto compatto e i colori litorali e marini. ( Pareva che la nonna avesse fatto anche questo. Gran donna la nonna! ) Il colore scorre in ogni maglia microscopica, creando un gioco di partenze e arrivi con i punti scoloriti. Prosciugati dai castori della tela che hanno bloccato il fiume impedendone la propagazione. Allo specchio delle ante, la sfumatura assunta non è visibile. Scrutata in tutte le diverse posizioni al primo movimento impercettibile del viso. Rimane sempre la stessa figura anche se distinta per angolature. Ai miei occhi, invece, è permesso capire che ogni rifrazione, per quanto sempre del medesimo oggetto, è succube di esperienze vissute, di sentimenti del momento, dell’umore che coltivo durante il giorno; del Pensiero.
Ogni singolo sgargiante si esprime all’infinito dentro quella grancassa specchiante. Infatti, guardando il riflesso del tappeto, mentre sto seduto a lato del tavolo, inizia il gioco di cristalli che si rifrangono vicendevolmente e che confonde i sensi sottraendomi al riconoscimento della copia reale. Sono tinte amalgamate nel tessuto, nel pavimento e nello specchio; in tutta la stanza.
Eh, sì! Dà proprio un tono all’ambiente.
La parete di silicio fuso, cui ogni giorno sto davanti per almeno cinque minuti, mi permette comunque di svegliarmi la mattina riflettendo il sole sulla faccia assonnata. Ugualmente, sul vaso di azalee. Dal balcone lo sposto dentro casa vicino ad una finestra in cui filtra luce. Le foglie si risvegliano, schiudono e stiracchiano verso la fonte. Appena un paio di ore dopo che i loro occhi si sono aperti, i raggi filtrano in modo tale da illuminare il vaso; contemporaneamente la superficie riflettente che racchiude la stanza e i vestiti. Ogni cellula inizia a crescere in silenzio. Gli apici si ingrandiscono e si allungano verso l’esterno della stanza. Una parte, invece, crede giusto avvicinarsi al suo secondo Dio. Immortalata nel vetro non si riconosce e lo specchio non vuole svelarle il segreto, ma neanche nasconde l’intenzione di spiarla. Quindi, cresce nella luminosità, ringraziando con vitalità il suo furbo possessore.
Nei giorni di pioggia si sente il ticchettio la mattina, sul balcone e sui vetri. Lungo le finestre, un rigagnolo causato, non dalle gocce che si staccano dalle nuvole, ma dallo sbattere di queste sui piani del mondo e dal ridursi e sparpagliarsi dopo il tonfo. Il sonno non se ne va quasi mai, abituato quant’è al mutarsi dei suoni; e non crede necessario andarsene, ché ancora poco illuminato. Resta quindi seduto sulla mia fronte o di fianco sul cuscino quando scomodo. Cerca idee o proposte; spinge anche cose giuste e soffia, soffia nell’orecchio il suo fumo amaranto da suggerirmi ogni cosa. Ed inizio a sognare alle cinque; come se corressi, come se fossi inseguito dal sole e dall’imbrunire del cielo e degli sguardi. Mi riconosco nella bottiglia di Donna Fugata e ne attraverso il collo trovandomi a nuotare nella Manica, in mezzo ad acqua gelida, che a guardarla sembra vitrea. È la superficie increspata dalle mie bravate. La mia persona si fonde con lo specchio, affondando giù nelle profondità. Afferrato per una caviglia provo a divincolarmi, ma si sente la mano ruvida e forte da muratore pronto a fissarmi come un sedimento. “Diventerò una conchiglia”- penso - “ O uno strafottuto ramo di una strafottutissima barriera corallina!”.
A quel punto apro gli occhi e inizio ad assorbire la poca luce che le nubi fanno trapelare e mi sento giù di morale fino al momento in cui sposto le coperte. Un pensiero mi si para davanti e si mescola con i colori del tappeto, con l’armadio e le gocce di pioggia. Sono le dieci! Prendo il portafogli. Vestendomi velocemente esco di casa. Prontamente la chiave s'infila nella serratura e con scatti decisi la porta viene serrata. Conosco già la direzione e so già quali spese potrei sostenere durante la giornata. Un paio d’ore dopo: la chiave gocciolante d’acqua viene reinserita nella fessura e scatti decisi rivelano la stanza. Sottobraccio un altro specchio, meno ornato ma altrettanto grande, che aspetta di essere sistemato.
Fuori continua a piovere.
Apro il balcone e appoggio la lastra sottile sul parapetto, di modo che le nuvole si possano vedere mentre cadono, così tristi e discontinue. Chissà: grazie al riflesso, le gocce torneranno su da chi le ha mandate, evitando la completa dissoluzione? Dovrebbero accorparsi nuovamente e far continuare la pulizia del mondo. Mondare la mondanità.
Lentamente si disgregano mentre il tempo scorre, fino a lasciare che nulla occupi il cielo. Le ultime che rimangono visibili all’uomo sono fatte apposta per essere lette ed interpretate, simili ad oggetti o animali. Le guardo attraverso lo specchio; le vedo passare una per volta e tutte assieme. Una grossa lucertola apre la bocca spingendo fuori la lingua. Un grosso ammasso, un piede separato dal corpo, la schiaccia tenendola sotto la suola. La lingua fugge ancora viva e speranzosa di rigenerarsi, spinta dal vento delle altitudini. Trema e si allunga: una freccia che si sporge oltre la scia di un aereo e che sorvola numerosi edifici. Noi siamo formiche, se non granelli di sabbia; lei non è da meno. Tentando di colpire il bersaglio viene cancellata, resa invisibile. Il centro del sole esprime tutta la rabbia per il tentato omicidio e s’infiamma. L’umidità è a suo favore. Le gocce, ancora nell’aria, fanno da lente per i raggi che manda sulla terra. Ogni dove viene investito dalla loro forza. Anche lo specchio, ora, rifrange il sole e le azalee non ne traggono più vantaggio. I miei occhi non se ne accorgono abbastanza in fretta e ne rimango accecato. Il flash mi stordisce, lasciandomi barcollare per un momento. La schiena incontra la barriera del balcone. Cado dal parapetto e sento il vuoto. La mia persona si fonde con esso. Lo stesso sole non è abbastanza veloce e, benché passino otto minuti di intensa propagazione, non si sposta ricevendo in pieno il fascio di fotoni. Brucia! La fornace millenaria brucia di se stessa e come un buco nero sembra riassorbirsi. Ogni momento della sua esistenza ripassa davanti ai vulcani incandescenti che stanno implodendo. Nessun Dio da pregare, né amico da salutare; soltanto la sua immagine assassina impressa nella retina.
La gente muore. E continua a morire ma non ne rimane mai l’immagine allo specchio.
(F.Air. Febbraio 2008)
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